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L'adeguamento regionale innesca il contenzioso
Le norme locali. Lo stato dell'attuazione

L’adeguamento degli ordinamenti regionali ai principi nazionali in tema di liberalizzazioni nel commercio ha, finora, seguito un percorso caratterizzato da contrasti interpretativi sulla natura e sulla portata delle novità nazionali.

Alla forte e costante spinta del legislatore statale verso una più ampia liberalizzazione della disciplina del commercio fa da contraltare una certa resistenza delle Regioni a un pieno e completo recepimento dei principi nazionali.

I vincoli imposti nel tempo dalla normativa regionale alla materia del commercio sono stati di varia natura: limitazioni agli orari di apertura, imposizione di giorni di chiusura, vincoli all’apertura di attività commerciali, contingentamento delle autorizzazioni, moratorie al rilascio di nuovi titoli, limitazioni delle ipotesi di ricorso alle Scia sono solo alcuni degli esempi delle molteplici forme di controllo esercitate dalle amministrazioni regionali sul settore del commercio. Questo complesso coacervo normativo (declinato con modi e forme differenti in ciascuna Regione) si scontra ora con i principi e le norme che tendono alla più ampia libertà di attivazione e di esercizio degli esercizi commerciali (si veda l’articolo a fianco).

Gli ordinamenti regionali hanno spesso visto – nelle disposizioni nazionali in tema di liberalizzazione – una forma di ingerenza nella potestà legislativa residuale sul commercio garantita dall’articolo 117, comma 4, della Costituzione. A tal proposito, un folto numero di Regioni (Veneto, Piemonte, Sicilia, Lazio, Lombardia, Sardegna, Toscana, Friuli Venezia Giulia) ha impugnato avanti la Corte costituzionale le disposizioni contenute nell’articolo 3 del Dl 223/2006, come modificate dal Dl 201/2011, che eliminavano i limiti degli orari di apertura e di chiusura degli esercizi commerciali, l’obbligo della chiusura domenicale e festiva e quello della mezza giornata infrasettimanale. Ma la Corte ha ritenuto non fondate le questioni sollevate dalle Regioni in quanto ha inquadrato le previsioni del Dl 201/2011 nella materia della tutela della concorrenza, di competenza esclusiva nazionale (sentenza 299/2012). Secondo l’interpretazione giurisprudenziale, quindi, i precetti legislativi nazionali sulle liberalizzazioni devono costituire uno dei parametri normativi di riferimento per la legislazione regionale sul commercio.

Il termine entro il quale gli ordinamenti regionali e locali avrebbero dovuto adeguarsi alla disciplina nazionale era fissato al 31 dicembre scorso: in assenza di regole regionali ad hoc, diventa applicabile direttamente la normativa nazionale a partire dal primo gennadio di quest’anno.

Tra le Regioni che hanno recepito i principi di liberalizzazione, il Veneto con la Lr n. 50/2012 e con il regolamento di attuazione (Dgr 1047 del 18 giugno 2013) ha consentito l’apertura e la modifica di medie strutture di vendita (fino a 1.500 mq) con Scia e ha previsto, altresì, che all’interno dei centri storici l’autorizzazione per le grandi strutture di vendita sia rilasciata dal Suap (mentre nelle altre aree, il provvedimento passa per una conferenza di servizi). Anche la Toscana (leggi n. 52/2012, n. 13/2013 e n. 47/2013) ha modificato il proprio Codice del commercio, ma i tentativi del legislatore regionale sono ora al vaglio della Corte costituzionale: il Governo ha, infatti, impugnato le disposizioni regionali ritenendole non in linea con i principi espressi dalla normativa nazionale. Stessa sorte per Bolzano (Lp n. 7/2012) e per le leggi delle Regioni Umbria (n. 10/2013) e Valle D’Aosta (Lr n. 5/2013).

Peculiare è poi il caso della Regione Lombardia: oggi vige la moratoria fino al 31 dicembre 2013 al rilascio di nuove autorizzazioni per l’apertura o la modifica di grandi strutture di vendita. Con ordinanza n. 988 dell’11 settembre 2013 il Tar Milano ha considerato congruo il termine prevedendo, altresì che eventuali proroghe dovranno considerarsi illegittime.


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