G. Carmagnini
Appare pacifico che il mezzo pubblicitario era collocato in vista della strada pubblica, anche per stessa ammissione del ricorrente, così come pacifico è che lo stesso fosse privo di autorizzazione.
Orbene, il ricorrente da un lato assume di aver sempre corrisposto la relativa tassa o canone relativo all’impianto pubblicitario per cui è causa e dall’altro che a distanza di così tanto tempo non è in grado, a quanto pare, di trovare l’autorizzazione presumibilmente secondo lo stesso ottenuta una decina di anni fa.
É chiaro che l’obbligo di esibire l’autorizzazione di cui l’amministrazione ha contestato la mancanza non può che spettare al ricorrente, non potendo certo la convenuta a dover dimostrare che l’autorizzazione non esiste giacché, avendo accertato la sua assenza è essa stessa la prova della fondatezza dell’accertamento, sicché spetta al ricorrente dimostrare il contrario.
Nel merito, come noto, la strada è destinata alla circolazione dei veicoli, delle persone e degli animali, sicché qualsiasi uso diverso della stessa o è completamente vietato, ovvero è soggetto ad autorizzazione o concessione.
Le autorizzazioni e le concessioni di uso della strada mediante occupazione sono altresì soggette al pagamento di un tributo (Tosap) che nel tempo è stato trasformato in un canone (Cosap) regolamento da norme estranee al codice della strada.
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Per questo si tratta di due materie distinte, di cui l’una, disciplinata dal codice della strada, tutela la sicurezza della circolazione ed assoggetta l’uso particolare della strada al rilascio, previa valutazione dell’entro proprietario o concessionario della strada, di una concessione o di una autorizzazione, secondo le relative norme; l’altra, al fine di compensare il sacrificio dell’interesse pubblico a favore di quello privato, richiede il pagamento di un canone di occupazione del suolo pubblico.
Tanto è che già la disciplina del tributo per le occupazioni anche mediante impianti pubblicitari (dPR 507/1996, art. 24 comma 4) prevedeva che “i mezzi pubblicitari esposti abusivamente” potessero “ con ordinanza del sindaco, essere sequestrati a garanzia del pagamento delle spese di rimozione e di custodia, nonchè dell’imposta e dell’ammontare delle relative soprattasse ed interessi” a dimostrazione che la tassa è dovuto anche per gli impianti abusivamente collocati e questo perché appare evidente che comunque si è verificato quell’uso straordinario della strada nell’interesse del privato che, pertanto, a prescindere dalla regolarità dell’impianto, è tenuto corrispondere il tributo. La stessa norma, con riguardo alle occupazioni di suolo pubblico prevedeva che “La tassa è dovuta al comune o alla provincia dal titolare dell’atto di concessione o di autorizzazione o, in mancanza, dall’occupante di fatto, anche abusivo, in proporzione alla superficie effettivamente sottratta all’uso pubblico nell’ambito del rispettivo territorio”.
Il Decreto legislativo del 15/12/1997 n. 446 ha dettato i principi generali per la regolamentazione a livello locale del c.d. Canone Unico, prevedendo peraltro la “applicazione alle occupazioni abusive di un’indennità pari al canone maggiorato fino al 50 per cento, considerando permanenti le occupazioni abusive realizzate con impianti o manufatti di carattere stabile, mentre le occupazioni abusive temporanee si presumono effettuate dal trentesimo giorno antecedente la data del verbale di accertamento, redatto da competente pubblico ufficiale” a riprova di quanto già affermato e cioè che anche le realizzazioni abusive dell’uso straordinario della strada sono soggetto al pagamento del corrispettivo che, peraltro, viene maggiorato nel caso del canone.
Diversamente, sarebbe come sostenere che una volta pagati gli oneri di urbanizzazione sarebbe legittimo edificare un fabbricato in assenza del relativo permesso di costruire.
Nemmeno coglie nel segno il tentativo del ricorrente di escludere l’elemento soggettivo con richiamo al vago concetto di buona fede, attribuendo non si sa quale responsabilità all’amministrazione convenuta che ricevendo il pagamento di una tassa o canone avrebbe dovuto già rilevare l’esistenza di un impianto abusivo. Questo perché da un lato il pagamento è dovuto anche per gli impianti abusivi e in seguito si verificherà se quanto pagato era capiente rispetto alle caratteristiche dell’impianto abusivo e dall’altro perché la ricezione di un pagamento spontaneo non determina di per sé un obbligo di accertare l’imputazione della somma versata (che, comunque, era dovuta anche in caso di impianti abusivi).
Il ricorrente non può neanche dolersi della mera tolleranza dell’amministrazione, che certo non è tenuta né ha la possibilità di accertare qualsiasi illecito commesso sul territorio di competenza.
Sul tema, la Cassazione, chiamata da un Comune a pronunciarsi sulla decisione del giudice di pace di Borgo San Lorenzo che aveva annullato un verbale per divieto di sosta sulla base del fatto che il ricorrente era stato tratto in inganno da altri veicoli nella stessa situazione, ma non sanzionati, ha annullato criticamente la sentenza senza rinvio. La decisione dei Giudici di Piazza Cavour (Cassazione sezione II Civile – Sentenza 29709 del 18 dicembre 2008) ovviamente non stupisce, in quanto l’errore in fatto e l’errore in diritto, per far venir meno la responsabilità dell’utente, devono incidere incolpevolmente sulla possibilità dello stesso di conoscere l’antigiuridicità del proprio comportamento. In pratica, l’errore sul fatto è idoneo ad escludere la responsabilità dell’agente solo quando esso non sia determinato da colpa, mentre il cosiddetto “error iuris” può legittimamente configurarsi come esimente solo nel caso d’inevitabile ignoranza del precetto da parte dell’autore dell’illecito (così Cass. civ. sez. I, 12 gennaio 1999, n. 243). Trattandosi di valutazione della scusabilità dell’errore, essa non può che essere effettuata ex ante, cioè ponendosi nella stessa posizione in cui si trovava il soggetto, allorché incorse in errore. Quindi, l’errore in diritto, non espressamente previsto dalla legge n. 689/81, rileva solo a fronte della inevitabilità dell’ignoranza del precetto violato, il cui apprezzamento va effettuato alla luce della conoscenza e dell’obbligo di conoscenza delle leggi che grava sull’agente in relazione anche alla qualità professionale posseduta e al suo dovere di informazione sulle norme che specificamente disciplinano l’attività che egli svolge (così, Cass. civ. sez. II, 22 novembre 2006, n, 24803).
L’errore sul fatto può costituire una esimente nella responsabilità per una violazione amministrativa solo in rari casi, poiché, ai sensi dell’articolo 3 della legge n. 689/81, per integrare l’elemento soggettivo delle violazioni alle quali è applicabile una sanzione amministrativa è sufficiente la semplice colpa. Quindi, l’errore sul fatto esclude la responsabilità dell’agente solo quando non si tratti di errore determinato da colpa, con la conseguenza che l’apporto estintivo della responsabilità va valutato da parte del giudice facendo riferimento all’ordinaria diligenza e deve essere fondato su elementi positivi che siano effettivamente idonei a determinare la sussisten¬za di un errore scusabile (Cass. civ. sez. I, 6 maggio 1998, n. 4549). La mera tolleranza, ovvero la mancanza di controlli od altri interventi da parte della Pubblica Amministrazione non possono essere invocati come fatti idonei a radicare la buona fede e ad escludere l’elemento soggettivo dell’illecito, occorrendo, per questo, da un lato la sussistenza di circostanze di fatto positive atte ad ingenerare nell’agente la convinzione della liceità della sua condotta e, dall’altro, che lo stesso non sia stato negligente od imprudente, ossia che abbia fatto tutto quanto possibile per osservare la legge (così, Cass. civ. sez. I, 2 ottobre 1989 n. 3958; 25 gennaio 1999, n. 657; 5 giugno 2001, n. 7603; Sez. Lav., 2 ottobre 2002, n. 14168). Nemmeno la mera tolleranza serbata dagli agenti nei confronti di soggetti diversi dal destinatario della sanzione, ancorché versanti in una situazione del tutto analoga, non può essere legittimamente invocata come esimente sotto il profilo di difetto di coscienza e volontà dell’azione illecita (Cass. civ. sez. I, 26 ottobre 1998, n. 10606).
Quindi, il ricorrente non poteva non essere a conoscenza della mancanza di autorizzazione per l’impianto per cui è stato sanzionato, né può ipotizzare l’esistenza della stessa o il rinnovo della medesima. L’autorizzazione all’installazione di cartelli, di insegne di esercizio o di mezzi pubblicitari ha validità per un periodo di tre anni ed è rinnovabile, ma non risulta alcun rinnnovo. Semmai dovrà provare che l’accertamento è infondato, producendo l’autorizzazione e/o i rinnovi. Peraltro, sui mezzi pubblicitari devono essere riportati o con apposita targhetta o con altro metodo utile allo scopo, gli estremi dell’autorizzazione, del tutto mancanti sullo striscione (e peraltro la violazione regolamentare comporta l’applicazione della medesima sanzione prevista per la mancanza del titolo autorizzativo).
Tra l’altro il ricorrente pare che in un passaggio del ricorso, non si comprende con quale finalità, confonda il canone con le spese di istruttoria previste dall’articolo 53, comma 7, del regolamento, nella parte in cui dispone che “il corrispettivo che il soggetto richiedente deve versare per il rilascio dell’autorizzazione deve essere determinabile da parte dello stesso soggetto sulla base di un prezzario annuale, comprensivo di tutti gli oneri, esclusi solo quelli previsti dall’articolo 405, che deve essere predisposto e reso pubblico da parte di ciascun ente competente entro il trentuno ottobre dell’anno precedente a quello di applicazione del listino”.
Non risulta che il ricorrente abbia richiesto il rinnovo di una autorizzazione con le modalità del citato articolo 53 del regolamento, ma, si ripete, ove lo avesse fatto o avesse ottenuto una nuova autorizzazione, avrebbe dovuto allegare il rinnovo o l’autorizzazione la ricorso per dimostrare l’infondatezza dell’accertamento che ha dato seguito al verbale di cui si tratta.
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